Il Corriere della Sera on line ha ignorato il decesso di questa eroina dei nostri tempi, ma non quello di un centoquattrenne americano che negli anni Trenta sollevava tre quintalate di roba con il dito mignolo, mentre la Repubblica on line ha confinato la notizia tra un ippopotamo e Pitti Uomo. Poco o niente spazio nei tg, che preferiscono dedicarsi ai writers che dipingono le saracinesche dei negozi e degli avvocati che partono per l'Alaska in cerca di avventure (no, non sto esagerando: era il Tg1 di stasera martedì sera).
Dieci anni fa visitai l’edificio di Prinsengracht 263, ad Amsterdam. Fu una sensazione talmente forte che, ancor oggi, la rivivo a distanza di tempo come se fosse ieri. Un motivo ci sarà.
Presi un volumetto, in quella circostanza. E trovai una testimonianza di Miep Gies. La voglio riproporre perché la trovo di straordinaria attualità nell’Italia del 2010, la stessa Italia che, forse, rifiuta di sostenere lo sguardo di un altro e per questo si concentra su aspetti secondari come il colore della pelle o il credo religioso.
“Otto Frank respirò profondamente e chiese: ‘Miep, sei pronta a prenderti sulle spalle la responsabilità del nostro mantenimento finché siamo nascosti?’ ‘Certamente’, ho risposto io.
Una o due volte nella vita due persone si guardano e quello sguardo non può essere descritto con le parole. Un tale sguardo ci siamo scambiati.
Non sono un’eroina, ma una come tanti. Sono stata soltanto pronta a fare ciò che mi è stato chiesto e che allora sembrava necessario”.
pubblicato il 12 gennaio 2010 su nonunacosaseria
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