Dopo un breve periodo festaiolo, riprendiamo ad occuparci del nostro Belpaese. Aspettando la celebrazione di San Bettino da Hammamet con l’apposita e indispenabile visita di Frattini alla tomba e la commemorativa inagurazione di una strada o di un parco a Milano – dove evidentemente non c’è altro di cui occuparsi a soli 10 giorni dal blocco della stazione ferroviaria –, oggi ci soffermiamo sulle dichiarazioni di Renato Brunetta, ovviamente non riportate dal tg1.
In un’intervista a Libero (intervista per modo di dire: le domande erano tutte mirate a permettergli di pronunciare i soliti spottoni tipo «nel 2010 ci sarà la totale implementazione della mia riforma. Cambierà l’intero quadro della contrattazione: si passerà da un numero indeterminato di comparti a quattro. Saranno introdotti il merito, la trasparenza, la mobilità, i premi e le sanzioni. Questo potrà cambiare l’intera pubblica amministrazione, che vuol dire cambiare lo Stato») il ministro si è soffermato anche sulla riforma della Costituzione. La sua lamentela è lapidaria: «La riforma non dovrà riguardare solo la seconda parte della Costituzione, ma anche la prima. A partire dall’articolo 1: stabilire che "L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro" non significa assolutamente nulla».
I soliti comunisti-marxisti-leninisti-massimalisti-bolscevichi-menscevichi hanno bocciato la rimostranza del ministro, dandogli più o meno dell’eversivo reazionario. Noi invece ci sentiamo di stare dalla parte del responsabile della Pubblica Amministrazione. Come non dare ragione a un mancato premio Nobel per l’Economia, come rivelò egli stesso il 18 giugno 2008 a Matrix intervistato da Mentana (Brunetta: «Volevo vincere il Premio Nobel per l’Economia. Ero anche bravo, ero... non dico lì lì per farlo, però ero nella giusta... Ha prevalso il mio amore per la politica, ed il Premio Nobel non lo vincerò più. Ho fatto un errore»; Mentana: «Ma l’avrebbe vinto?»; Brunetta: «Sì»; Mentana: «Veramente?»; Brunetta: «Sì»)?
Come non condividere il suo pensiero, sorvolando sul fatto che sia un seminatore d’odio («L’ élite di merda della sinistra per male deve morire ammazzata») e dunque – nella logica del Partito dell’amore di Cicciolino, come il Fatto Quotidiano ha oggi stupendamente ribattezzato il nostro premier, risorto dopo un po’ più di tre giorni – un bugiardo calunniatore non degno di essere creduto?
Noi nel fatto che effettivamente la Repubblica italiana non sia fondata sul lavoro ci crediamo: ad ottobre (ultimo mese preso in esame dall’Istat) l’inattività è cresciuta inoltre di 392.000 unità, mentre il tasso di disoccupazione ha raggiunto l’8,2%, il dato peggiore dal 2004 che si accompagna a quello dei 508.000 occupati in meno rispetto allo stesso mese del 2008, nuovo record da quando sono iniziate le rivelazioni statistiche nel 1992. «Tale risultato – ha riassunto l’Istat – deriva da un’ulteriore caduta dell’occupazione autonoma, dei dipendenti a termine e dei collaboratori, cui si aggiunge una significativa flessione dei dipendenti a tempo indeterminato».
Questa secondo voi «è una Repubblica democratica fondata sul lavoro»? La perdita dei posti contenuta solo con la cig, senza alcun progetto o prospettiva futuri, senza programmazioni serie e con una continua precarizzazione del lavoro risponde a tale definizione? E che dire delle pensioni da fame che, a causa del debito pubblico esorbitante, non verranno mai ritirate dalle future generazioni? C’è poco da dire: ha ragione il ministro. Ovviamente, da brava persona quale è, non pensa minimamente di dover fare quanto gli è possibile per provare ad applicare realmente il primo articolo della Carta: pondera direttamente di modificarlo o, peggio, di cassarlo.
Insomma, basta con le ipocrisie: l’Italia non si basa sul lavoro. Da sempre è così. Prendete i nostri politici, magari proprio Brunetta, magari proprio quando era europarlamentare. Sì, sono dati noti e stranoti, però è il caso di ripeterli per non assefuarsi all’oblio e per ricordarsi sempre da quali pulpiti vengono certe frasi: Brunetta, quello che ci dice che dire che l’Italia si basa sul lavoro non significa nulla, è quello che dal 1999 al 2004 ha fatto registrare il 51,79% di assenze e dal 2004 al 2008 il 37,22%: non vi fa girare gli zebedei sapere che uno così, stipendiato da una vita coi nostri soldi, ci viene a dire che è inutile ripetere che lo Stato si basa sul lavoro?
di AB, via Bile
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