1.800 miliardi di Euro, è il nuovo record toccato dal nostro debito pubblico. Questo mentre proprio in questi giorni la Grecia ha sfiorato il “default” del suo. Perché in pochi parlano di questo enorme fardello che grava su ognuno di noi e, soprattutto, peserà sulle future generazioni?
Mercoledì scorso su Giornalettismo, sia Carlo Cipiciani nel suo editoriale, sia Luca Conforti nella sua inchiesta, si sono occupati del nostro Debito pubblico. L’editoriale di Cipiciani, in particolare, mi è parso più allarmato rispetto alla pur puntuale e precisa inchiesta di Conforti. Cipiciani, in sostanza auspica una decisa presa d’atto della gravità della situazione italiana. “E’ bene – scrive Cipiciani nel suo articolo –che il paese cominci a rendersene conto. E che qualcuno cominci a prendere dei provvedimenti, prima che sia davvero troppo tardi”. Io sono d’accordo con lui. Il debito pubblico italiano ha superato soglia 1.800mila miliardi di euro. Un cifra impressionante. L’Italia ha in valore assoluto – ossia non in relazione al Pil, su cui viene calcolato rispetto al parametro di Maastricht che, comunque, si avvia verso il picco del 120% – uno dei debiti più alti al mondo. La crescita del debito su base mensile è stata di ben 14,7 miliardi ed è imputabile, secondo il bollettino di Bankitalia, per la maggior parte alle spese delle amministrazioni pubbliche. Forse pochi lo sanno, ma se non avessimo questo macigno sulle spalle, frutto dei deficit accumulati ogni anno, lo Stato potrebbe indirizzare le sue risorse per ammodernare l’apparato pubblico, potenziare la rete delle sue infrastrutture, rendere efficienti i servizi sociali, promuovere programmi di sviluppo in settori strategici dell’economia come quello delle nuove tecnologie e della conoscenza, creando così nuova occupazione. Insomma, come ci insegnano al corso di economia, potrebbe praticare quel ruolo del buon padre di famiglia che, liberatosi dopo lunghi sacrifici di tutti i debiti contratti nel passato, comincia finalmente a guardare con ottimismo al futuro suo e della sua famiglia.
RERUM CONOSCERE CAUSAS – Il debito pubblico italiano è di gran lunga più consistente dell’insieme dei beni e dei servizi che il nostro paese è in grado di produrre in un anno (il cosiddetto Prodotto interno lordo, Pil). In particolare, alla fine di quest’anno si prevede che il rapporto tra debito pubblico e reddito nazionale (Pil) supererà quota 115%, per salire ancora l’anno prossimo addirittura al 120% (record negativo, peraltro, già raggiunto nel lontano 1995). Per cogliere l’esatta dimensione del problema basta ricordare che il “famoso” Trattato di Maastricht prevedeva che tale valore non dovesse eccedere il 60%. Quanto poi al disavanzo annuale, il limite è del 3% del Pil. Quest’anno l’Italia quasi lo raddoppierà superando largamente il 5%. Poco male si obietterà, del resto anche altri paesi europei (per non parlare degli stessi Usa) hanno visto crescere il loro debito e il loro deficit, dopo la congiuntura negativa legata alla crisi economica del 2009. Vero, sta di fatto però, che negli altri paesi si sono largamente praticate politiche di “deficit spending”, ovvero di spesa in deficit per tutelare il welfare dei cittadini e proteggere meglio i settori economici più esposti (quello finanziario e quello manifatturiero, in particolare). In Italia, viceversa, si è speso relativamente poco e soprattutto si è speso male. Nonostante ciò, il nostro debito pubblico è il più alto del continente. L’antico motto della London School of Economics, Rerum conoscere causas (prima occorre conoscere le cause dei problemi), per poi giudicarli e valutarli criticamente, oggi dovrebbe valere più che mai. Purtroppo, dubito che questa capacità d’analisi ed eventualmente di critica sia nelle “corde” di questo governo. Quando le entrate, che affluiscono sotto forma di tasse e contributi, non sono sufficienti a coprire sia le spese correnti che gli interessi sul debito accumulato in precedenza si crea, come detto, un disavanzo nei conti pubblici. Lo Stato, in pratica, è costretto a ricorrere ai prestiti dei risparmiatori e soprattutto agli investitori esteri, offrendo ai sottoscrittori dei suoi titoli un rendimento appetibile e, quindi, indebitandosi ulteriormente. Il debito pubblico, quindi, non è altro che l’insieme dei debiti contratti all’interno e all’estero dallo Stato, per finanziare i deficit annuali. In sostanza, è il totale del passivo accumulato nel corso del tempo, per far fronte al fabbisogno finanziario dello Stato.
UN CASO CONCRETO: LA GRECIA - Proprio in questi giorni la Grecia ha sfiorato il cosiddetto “default”, ovvero la “bancarotta” finanziaria del suo sistema economico. Oltre alla Grecia, altri paesi europei sono considerati a rischioinsolvenza del debito da mercati e agenzie di rating. L’Italia, al di là dei giudizi spesso ballerini delle agenzie di rating, resta uno di questi. Ma quali sono differenze e analogie tra la nostra situazione e quella greca? In Grecia lo squilibrio è dato da un disavanzo primario molto elevato. Nel nostro Paese, invece, è la fortissima recessione seguita alla crisi a creare problemi. L’agenzia di rating Standard&Poors ha messo in “negative watch” il debito greco, attualmente classificato A-, preludendo a un probabile declassamento; il giorno dopo Moody’s lo ha declassato a BBB+, con un “outlook” negativo. Nel frattempo, sul mercato sono aumentati vertiginosamente gli spread sui Cds greci, ossia i premi pagati per assicurarsi contro l’insolvenza. Le ripercussioni, ovviamente, si sono riverberate su tutte le piazze economiche europee, ma il vero terremoto economico-finanziario, come è facile immaginare, ha interessato soprattutto Atene. Quasi certamente il premier greco,George Papandreou, in questi giorni, si starà pentendo di aver vinto le recenti elezioni politiche. Quello che ha trovato nel bilancio dello Stato è un buco gigantesco: un deficit per il 2009 del 13%, contro il dato del 5% che veniva diffuso dal vecchio governo, che aveva quindi taroccato i dati. La fuga dal debito pubblico greco, come detto avallata dalle varie agenzie di rating, però è ingiustificata e il governo greco non ha nessuna necessità di dichiarare bancarotta. Ma è anche vero che per più di trent’anni l’indisciplina fiscale è stata la regola dell’azione dei vari governi che si sono succeduti. La pressione dei mercati finanziari dovrebbe ora essere interpretata come il segnale di un ritorno alla serietà e al rigore. Per procedere a tagli immediati e radicali della spesa pubblica e a una riforma delle procedure di bilancio. Interventi politicamente dolorosi, ma inevitabili.
QUANTO SIAMO A RISCHIO? – Nel breve termine, diciamolo subito, come del resto sostiene Conforti nella sua inchiesta, è certamente vero l’Italia non corre il rischio di finire come la Grecia o peggio ancora come l’Argentina di qualche anno fa. Però elementi di preoccupazione nel medio, lungo termine ce ne sono, eccome. L’Italia è sicuramente un Paese con molti problemi, fra i quali il fardello pesantissimo di detenere il terzo debito pubblico al mondo. La conseguenza più dirompente è un’iniqua ed inefficiente redistribuzione della ricchezza, poiché abbiamo il fardello di dover devolvere una parte crescente del gettito fiscale (peraltro, quest’anno in calo per via della crisi e delle stesse politiche fiscali attuate dal governo) al pagamento degli interessi e, nel contempo, si distolgono risorse dagli investimenti produttivi sia pubblici che privati. E’ proprio di ieri la notizia che le disuguaglianze economiche nel nostro Paese stanno aumentando. I “pochi” ricchi, in sostanza, risultano sempre più ricchi e i “molti” poveri sempre più poveri. Il problema principale sarà soprattutto per le prossime generazioni – e non è cosa da poco – che dovranno fare i conti con il minore capitale produttivo ereditato dai loro padri e quindi con una quantità di risorse destinate agli investimenti notevolmente ridotta. Inutile dire che nel nostro Paese sarebbe necessario aprire, quanto prima, un serio dibattito su questo tema. Ma dato l’aria che tira, specie negli ultimi giorni, è facile immaginare che per molto tempo saremo inchiodati a parlare solo di opposti estremismi e mandati morali.
via Giornalettismo
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