Il direttore del Tg1: “A chi sparava con la lupara fino a poco tempo fa, è stato permesso di sparare menzogne”. Ma Graviano è davvero così credibile?
Forse un giudizio troppo affrettato per un osservatore neutrale. Il direttore del Tg1 Augusto Minzolini ha appena concluso un editoriale dei suoi, quelli in cui per far valere le proprie ragioni si tende un pochino a forzare la realtà dei fatti. Subito dopo il servizio sulla smentita delle parole di Spatuzza, killer assassino, da parte dei suoi capi, i fratelli Graviano, a loro volta killer assassini (anche se questo si tende a dimenticarlo, specie se non supporta talune tesi), Minzolini si è chiesto se la grande eco data alle parole di Spatuzza si «poteva evitare»: «forse sì – risponde – se si fosse seguita alla lettera la legge sui pentiti». Minzolini, dopo aver ricordato che l’importanza attribuita, anche a livello mondiale, alle parole di Spatuzza ha danneggiato l’immagine dell’Italia e del presidente del consiglio, ha ricordato anche il caso di Giulio Andreotti: era già capitato con lui, ha detto, “ci ha messo più di dieci anni per liberarsi della leggenda del bacio a Riina, ed è stato danneggiato non solo l’interessato ma anche il Paese“. Per Minzolini “il caso Spatuzza è solo l’ultima prova, ma l’elenco è infinito, del fatto che nel nostro sistema giudiziario c’è qualcosa di sbagliato. Le polemiche su questioni di forma – ha concluso – non devono impedire di guardare ai problemi veri, e la riforma della giustizia è uno di questi“. Poi, non contento, ha anche sparato una frase a effetto: ”A chi sparava con la lupara fino a poco tempo fa, è stato permesso di sparare menzogne“.Riferendosi a Spatuzza, ovviamente.
UN PO’ DI CAUTELA NO? – Forse un po’ di cautela non guasterebbe, al direttore della testata pubblica pagata con i soldi del canone di tutti i cittadini. In primo luogo, perché durante l’udienza di oggi del processo Dell’Utri è successo quanto quasi tutti prevedevano. A parte qualche tensione registrata dalle parti di Denis Verdini, coordinatore del Popolo delle Libertà, tutti si aspettavano il silenzio dei Graviano. I quali, l’ha detto e ridetto Filippo, non sono dei pentiti. Al massimo, sono dei dissociati da Cosa Nostra, che sarebbero pronti ad ammettere le proprie responsabilità in cambio di un miglioramento del regime carcerario troppo duro. Le proprie, non quelle altrui. Perché i Graviano uomini d’onore sono. Anche Giuseppe, che oggi ha fatto un dispetto e non ha parlato, mandando il suo avvocato a leggere davanti ai giornalisti la lettera che ha scritto alla Corte per spiegare l’indisponibilità, ha detto che potrebbe anche parlare, se finisce questa tortura. Sennò si sta zitto, e meglio così per tutti. Ma sono così credibili i Graviano?
COSE CHE CAPITANO – Per dirlo, si potrebbe ricordare, come fa l’Antefatto, che Filippo Gravianoha negato di conoscere persino una delle due persone con cui viene arrestato nel 1994. Oppure si potrebbe entrare nel merito, andando a pescare qui, e ricordando che era il 27 gennaio 1994 quando il padre di Gaetano D’Agostino, calciatore dell’Udinese, uno dei migliori centrocampisti attualmente in circolazione, veniva scoperto al tavolo con due boss di primo piano della mafia palermitana: i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, membri della Commissione di Cosa Nostra e alleati storici di Totò Riina. I magistrati definiranno poi D’Agostino e il quarto commensale,Salvatore Spataro, collegati alla famiglia di Brancaccio, di cui i Graviano sono a capo. Quella cena al ristorante “Gigi al Cacciatore” diventa fatale per i Graviano e gli altri due amici, accerchiati da 15 carabinieri dei ros e portati via in manette. Ma sarà una mazzata anche per il braccio destro di Berlusconi, visto le dichiarazioni rese dal padre del calciatore pochi giorni il suo arresto per favoreggiamento: “Mio figlio doveva entrare nelle giovanili del Milan, ma per essere tesserato era necessario che risiedesse in Lombardia. Per questo sono venuto a cercare un’occupazione. In precedenza mi ero recato a Milano con Francesco Piacenti e Carmelo Barone… Mi avevano promesso di interessarsi per trovare un lavoro a Milano tramite tal signor Dell’Utri”. Un omonimo?
RISPOSTA SBAGLIATA – Mi sa di no. Passano 14 mesi e D’Agostino viene accusato di associazione mafiosa per quei rapporti coi Graviano ed è pressappoco in quel periodo che “racconta ai magistrati che dopo la morte di Barone i fratelli Graviano gli avrebbero detto di non preoccuparsi: a farlo assumere in Lombardia, in un grande magazzino controllato dalla Fininvest, ci avrebbero pensato loro”. E racconta pure di un episodio antecedente all’arresto: nel dicembre ’93 Tullio Cannella, imprenditore vicino agli uomini di Brancaccio, a cominciare da Leoluca Bagarella, gli chiese il favore di ospitare in casa un amico con la sua fidanzata. Si trattava niente di meno che di Giuseppe Graviano e la compagna Rosaria Gualdi. Giuseppe D’Agostino pensò subito di poter approfittare di quel potentissimo aggancio. Espose il problema al pezzo da novanta di Cosa Nostra: “Melo Barone conosce Dell’Utri”, gli disse. “Le mie amicizie non sono da meno”, rispose Graviano. Che poi gli spiegò: “Ho molte amicizie a Milano, potrei far entrare tuo figlio nel Milan… Potrei comprarti un negozio oppure potrei trovarti un lavoro in un grosso centro commerciale”. Per i magistrati si trattava di un Euromercato, la catena di ipermercati Standa. Coincidenza?
TUTTO PUO’ ESSERE - Può essere. In realtà, ci si aspettava che qualcuno, dalle parti della pubblica accusa, lo sottolineasse in qualche modo. Ma forse non erano pertinenti, oppure verrà il momento di farlo più tardi. Nel frattempo, ricordiamoci che qui c’è qualcuno che non si è pentito, il quale ha smentito uno che invece si è pentito. Autoaccusandosi della partecipazione a una strage, tra l’altro. E che dall’altra parte, nonostante ciò che pensa il senatore Dell’Utri, non c’erano degli angioletti che scacciavano il diavoletto, “mostrando sincero pentimento“. Nel frattempo, fossimo in Minzolini, attenderemmo con una maggior cautela prima di mettersi la sciarpa da Ultras e andare a gridare in Curva Sud. Con la lupara, in questa storia, ci sparavano un po’ tutti. Non è mica quello il punto. Non nascondiamoci dietro un dito.
via Giornalettismo
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