giovedì 19 novembre 2009

Rumiz: silenzio sull’acqua, super-business per far cassa

«La storia dell’umanità lo dice chiaro. Chi governa l’acqua, comanda. Le prime forme di compartecipazione democratica dal basso sono nate in Italia attorno all’uso delle sorgenti». Lo scontro dunque non è tra pubblico e privato, ma tra controllo delle risorse dal basso e delega totale dei servizi, con conseguente, lucroso monopolio di alcuni. «Oggi potremmo dover rinunciare a un pezzo della nostra sovranità», scrive Paolo Rumiz su “Repubblica” il 18 novembre, data d’inizio della discussione alla Camera del decreto Ronchi che sancisce la privatizzazione delle risorse idriche, affidate alle aziende multi-utility.
Sulla votazione il governo ha posto la fiducia perché, secondo Rumiz, gli italiani potrebbero “mangiare la foglia” se cadesse «la cortina di silenzio che negli ultimi anni ha avvolto il business legato alla distribuzione del più universale e strategico dei beni nazionali». Secondo il giornalista il nodo è economico: coi conti in rosso, lo Stato non ha le risorse per ammodernare la rete idrica, operazione che costerebbe «come otto ponti sullo stretto di Messina». Meglio dunque lasciare l’onere ai privati, che affronterebbero i costi facendo leva sulle tariffe, ovvero sui cittadini. E lo Stato, in questo modo, farebbe cassa.

«Da qui – aggiunge Rumiz – un decreto che, caso unico in Europa, obbliga a mettere in gara tutti i servizi legati all’acqua e accelerarne la trasformazione in Spa, dimenticando che, quasi ovunque le grandi società sono entrate nel gioco, le tariffe sono aumentate in assenza di investimenti sulla rete». Ovvio quindi che, meno se ne parla, meglio è. Proprio contro il silenzio si è levata la voce di Comuni, Regioni come la Puglia e comitati indipendenti, con la mobilitazione di personalità come quella di Alex Zanotelli che accusa: dove le grandi società di gestione sono subentrate, l’efficienza delle reti non è migliorata mentre le tariffe sono salite.

Anche Rumiz sostiene che alcuni servizi non possono essere privatizzati oltre un certo limite, perché se l’acqua finisce nelle dinamiche del mercato finanziario sfugge al controllo dei cittadini: a risponderne non sarebbe più il sindaco ma «un sordo “call center”, piazzato magari a Sydney, Pechino o New York». Secondo Rumiz la guerra dell’acqua dimostra che siamo in presenza di un passaggio epocale, in cui l’acqua e i rifiuti sono ormai il grande affare non dilazionabile, «l’accoppiata perfetta su cui si reggono i profitti delle multi-utility, e parallelamente le ingordigie della criminalità organizzata», attratta dall’oro blu.

via Libre

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